Questo articolo affronta un tema piuttosto delicato, in quanto va a toccare corde sensibili. Sicuramente qualcuno fra coloro i quali leggeranno questo testo si sentirà parte in causa e, fermo nelle proprie convinzioni, riterrà quanto scritto privo di fondamento o pretenzioso.
L’argomento in questione è il cosiddetto “complesso del salvatore bianco” o “white savior complex” in lingua inglese; esso si riferisce a una persona bianca che fornisce aiuto a persone non bianche, spesso in contesti di aiuti umanitari o missionari, con l’intenzione di “salvarle”. Questo comportamento è visto in modo critico perché può essere interpretato come paternalistico e condiscendente, suggerendo che le persone non bianche siano incapaci di aiutarsi da sole. L’espressione ha una connotazione negativa e viene utilizzata per descrivere situazioni in cui l’aiuto offerto è più finalizzato a soddisfare le esigenze emotive del “salvatore” che a creare un cambiamento duraturo e sostenibile.
A qualcuno saranno fischiate le orecchie…
Non si tratta certo di un fenomeno nuovo; per alcuni esso altro non è che una versione moderna del concetto del “fardello dell’uomo bianco” descritto nell’omonima poesia del 1899 da Rudyard Kipling, celebre scrittore, poeta e giornalista britannico nato in India, per cui l’espansionismo coloniale diviene un dovere dell’Occidente ed in particolare dell’Inghilterra vittoriana, e rappresenta lo stereotipo dell’africano come “Metà demone e metà bambino”:
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esilio
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini.
Notiamo nei versi quella spinta irrefrenabile al “sacrificio” di dover portare la (propria) civiltà, con quanto essa comporta, a popoli che forse nemmeno la volevano e ne necessitavano, e comunque con un costo umano ed ambientale immenso, i cui riflessi non scompariranno mai.
Già a quell’epoca, le signore di buona famiglia che vedevano bambini nudi ed illetterati si affannavano in raccolte di fondi per le loro necessità di base; tuttavia molto spesso diritti oramai acquisiti nei paesi occidentali, come l’istruzione, almeno per i maschi, veniva negata a quei bambini, perché troppo primitivi, selvaggi. Salvo qualche raro caso. Un tale “aiuto”, come è evidente, serviva più a ripulire la coscienza dei bianchi benestanti, a soddisfare il proprio ego, che non a contribuire realmente a sviluppare i territori occupati. D’altro canto la narrativa della supremazia bianca era allora ubiquitaria, imperante ed universalmente accettata.
Tuttavia ciò non deve farci pensare che si tratti di un fenomeno legato al passato; oggi esso si manifesta attraverso ben sbandierate azioni politiche, in cui il governo dei bianchi irrompe per portare aiuti ai poveri paesi del Terzo Mondo, promettendo sviluppo e benessere, ma ciò spesso si traduce più (o del tutto) in un vantaggio per le nazioni ricche; il nuovo cibo per i sottosviluppati paesi sono oggi le infrastrutture, la tecnologia, le armi, i medicinali (come lo furono i vaccini per il Covid 19), ma ricordiamoci che nessuno fa qualcosa per niente… Eppure la massa per lo più plaude a tali azioni: “Se non ci fossimo noi ad aiutarli, questi ancora andrebbero in giro vestiti con la pelle di leopardo e la lancia”. Quante volte si sentono espressioni di quel genere? Con una punta nemmeno tanto velata di razzismo. L’idea che le nazioni sottosviluppate, in particolare quelle africane, non siano in grado di sopravvivere senza l’Occidente, si diffonde e prospera grazie ad una narrazione spesso alimentata da stereotipi e notizie false, provenienti più che altro da una certa area ideologica di stampo nazionalista e populista. Quando poi sui media circolano immagini e video di personaggi famosi e ricchi, soprattutto bianchi, che sostengono associazioni ed onlus che operano nei paesi sottosviluppati, e che si fanno ritrarre con in braccio un bambino nero o mentre portano un sacco di farina, lo spettatore si convince che quella sia la modalità corretta di aiutare il prossimo. Quest’ultimo lo fa anche con buone intenzioni, e lo steso vale per le associazioni impegnate, ma è il modo di raccontare che è sbagliato ed alimenta i succitati stereotipi ed uno strisciante razzismo! È la rappresentazione, la mercificazione della povertà e dei bisogni altrui che alimenta l’inconscia morbosità della nostra psiche nel sentirsi indispensabili per gli altri e di conseguenza il porsi su di una posizione più elevata rispetto agli altri. La massa, spesso priva delle corrette informazioni, finisce col cavalcare tale pensiero, ed agisce di conseguenza; più o meno inconsciamente, tra chi pensa di fare del bene realmente, e chi lo fa per motivi un po’ meno “nobili”. Tutto ciò riferito ad un contesto su scala globale.
Nel piccolo delle realtà cittadine però il “complesso del salvatore” emerge in modo probabilmente più evidente in quanto più vicino, più riscontrabile, attraverso manifestazioni che toccano tutti noi.
Pensiamo a come i normali cittadini aiutano i paesi del Terzo Mondo: la forma più semplice consiste nel “liberarsi” del proprio superfluo per donarlo ad enti ed associazioni che si incaricano poi di inviarli ai destinatari. Lo fanno realmente per aiutare il prossimo, o piuttosto per liberarsi comodamente del loro “superfluo” (per utilizzare un eufemismo) e/o per sentirsi a posto con la propria coscienza?
Vero è che anche le stesse ONG / onlus talvolta finiscono risucchiate in tali pratiche; in fondo esse sono costituite in gran parte da volontari, che sono poi quegli stessi cittadini di cui sopra. D’altro canto si possono fare delle donazioni in denaro, le quali tuttavia vengono viste spesso con sospetto da coloro i quali non conoscono bene il percorso e la destinazione dei propri denari (“Come faccio a sapere che i miei soldi vanno veramente a chi ne ha bisogno? Come faccio a fidarmi dell’associazione a cui dono il mio denaro? Come posso sapere che poi il denaro non finisca in mani sbagliate”). Non basta nemmeno essere famosi per ottenere la fiducia dei donatori, i quali talvolta addirittura evitano di donare ad un soggetto che secondo loro è politicamente o moralmente schierato dalla parte “sbagliata”.
Come può manifestarsi il “complesso del salvatore” in tali contesti?
Abbiamo già accennato allo sfruttamento mediatico che consiste nell’utilizzare immagini e storie dei beneficiari per campagne di raccolta fondi o promozione senza il loro consenso pienamente informato, spesso presentandole in modi che perpetuano stereotipi negativi. Poi per esempio possiamo avere casi in cui i volontari assumono un atteggiamento condiscendente, trattando le comunità locali come se fossero incapaci di risolvere i propri problemi senza l’intervento dei “salvatori” esterni, con fare paternalistico. Oppure quando le associazioni di volontariato si imbarcano in progetti non sostenibili, che non tengono conto delle esigenze e delle opinioni della comunità locale, spesso con una pianificazione a breve termine che non assicura la continuità o il coinvolgimento dei beneficiari nel lungo periodo; di ciò ci erano stati in passato forniti alcuni esempi dal nostro partner in Burkina Faso, il dott. Bationo, come anche di casi in cui le decisioni chiave venivano prese senza consultare adeguatamente le comunità locali, il che può portare a una mancanza di rappresentanza e inclusione nei processi decisionali; si tratta di progetti in cui il potere centrale (governo, provincia, od altro) interviene dall’altro imponendo senza consultare i diretti interessati ed ignorando i leader locali: ciò può scatenare dinamiche di dipendenza da istituzioni e persone lontane, con problemi di relazioni, fraintendimenti, gelosie, ecc. Talvolta si possono addirittura notare narrative che utilizzano storie e immagini, le quali vengono spesso diffuse mediante social network, e che dipingono gli operatori come eroi che salvano persone in difficoltà, piuttosto che mettere in luce la resilienza e le capacità delle comunità locali: un’idea che soddisfa più che altro la brama di attenzione e soddisfazione personale piuttosto che spostare i riflettori su chi quotidianamente lotta per sopravvivere. Ci sono infine anche casi di dichiarata megalomania, con individui ricchi o benestanti, spesso anche famosi che fanno donazioni rilevanti, vantandosene con i media e cercando di attirare su di sé l’attenzione, per farsi pubblicità. Una categoria che spesso cade in questa trappola sono i cantanti e la gente dello spettacolo in genere. Pur avendo un fine nobile, come raccogliere fondi per l’Africa, eventi come i mega concerti pieni di celebrità fungono più da motore pubblicitario dei partecipanti che non da aiuto sensato: ok, avete procurato diverse tonnellate di cibo per gli africani, ma poi quando finisce?
Ancora, i cosiddetti “aiuti umanitari” possono anche divenire un’arma a doppio taglio, ovvero arrivare anche a provocare dei danni. Come? Alcuni esempi:
-Attraverso le organizzazioni vengono talvolta inviati in territori disagiati o sottoposti a catastrofi di vario genere giovani inesperti che si lanciano incoscientemente senza avere alcuna qualifica od esperienza per svolgere le mansioni che dovrebbero svolgere. Ve lo ricordate il caso delle due volontarie italiane rapite in Siria per cui il nostro governo (non) ha dovuto pagare un riscatto?
-Col volontariato sui territori, il quale talvolta coniuga turismo e volontariato, con un effetto mordi e fuggi: tutto è concentrato su “quello che l’esperienza mi lascerà/mi sta lasciando/mi ha lasciato” più che sui reali benefici della comunità che si va ad “aiutare”, con una scarsa conoscenza della stessa e delle sue reali necessità.
-Mediante l’insegnamento, spesso appannaggio di istituti religiosi. Scadere nel proselitismo è alquanto facile, e ciò può causare attriti con le comunità locali.
-Con la stessa adozione, che sia a distanza o meno, quando si basa sull’idea stereotipata del “così sottraggo un bambino da una situazione di povertà, criminalità, guerra, pestilenza e carestia”. Ma questo tipo di azioni sono per loro natura limitate nel tempo, non hanno un effetto a lungo termine sulla comunità locale.
Purtroppo quel modo di pensare ed agire ha trovato e trova ancora oggi, un’ampia cassa di risonanza nei media gestiti per lo più, guarda caso, da bianchi. Qualcuno si ricorderà la serie televisiva statunitense “Il mio amico Arnold” andata in onda in Italia negli anni ’80. In essa si racconta di una famiglia di bianchi che adotta, salva, due ragazzini neri. È il perfetto esempio del complesso del salvatore bianco: La studiosa Robin R. Means Coleman ha detto in proposito: “In queste commedie, i bambini neri sono salvati dalle loro famiglie disfunzionali o comunità da parte dei bianchi.” e lì la dicotomia bianchi bravi istruiti ricchi contro neri poveri ignoranti e spesso delinquenti, appare evidente. A qualcuno dei nostri politici saranno fischiate le orecchie, ancora una volta…
La chiave di tutto, sia chiaro, non è l’aiutare od il non aiutare, bensì come rappresentare le persone ed il loro ambiente. Mai sentito parlare della “televisione del dolore”, quella dove la gente mette in piazza le proprie disgrazie per attirare simpatia e compassione e che scatena gli istinti morbosi di tanti telespettatori? Ebbene, quando mostriamo i bambini vestiti di stracci e coperti di polvere gialla che in Perù lavorano nelle miniere di zolfo, oppure un nugolo di bambini africani che tendono la mano ad un bianco con in mano una pagnotta, non stiamo forse facendo lo stesso? Così si alimenta nello spettatore il complesso del salvatore bianco. Raramente vediamo campagne mediatiche dove si vedono testimonianze di efficienza, resilienza, adattamento e progresso, magari ottenuti grazie a finanziamenti e progetti ben ponderati, senza ricadere nella trappola di dare più spazio al bianco che porta soldi piuttosto che ai beneficiari che si sono rimboccati le maniche per realizzare un qualche cosa di utile alla comunità locale.
No White Saviors è un collettivo ugandese che sul social network Instagram ha ben descritto la problematica, recando ad esempio le immagini postate su Internet dall’attore scozzese Gerard Butler, che collaborava con un onlus nell’ambito dell’alimentazione scolastica:
“Quando facciamo un post come questo, non stiamo cancellando gli sforzi di nessuno, nonostante qualcuno lo possa pensare. Vogliamo solo lasciare lo spazio alla gente per imparare, crescere e impegnarsi per far meglio. E allo stesso tempo, dobbiamo smettere di dare la priorità ai sentimenti e alle intenzioni dei bianchi, senza valutare l’impatto che hanno sulle vite dei neri e sulle comunità nere.
Quando molti di voi ci hanno taggati o ci hanno mandato l’ultimo post di @gerardbutler, non abbiamo potuto fare a meno di pensare che questa fosse una rappresentazione stereotipata delle persone nere, soprattutto quelle del continente africano, come noi, che spesso vengono messe in mostra per far vedere la beneficenza e l’aiuto che riceviamo. Questo però ci ricorda come a mancare sia proprio l’impegno nel raccontare eticamente il modo in cui le organizzazioni non profit/ONG raccolgono fondi.
Se non siamo vestiti di stracci, siamo “poveri ma felici”. La trama non cambia mai e l’obiettivo finale è più o meno lo stesso.
Per la miseria, nessuno si accontenta di essere povero. Se fate beneficenza solo per tenere il passo con le apparenze, per placare il vostro senso di colpa, il vostro eccesso, il vostro privilegio, dovete riflettere sull’onestà delle vostre motivazioni e chiedervi se state o meno dando davvero priorità alle persone a cui dite di tenere.Se si riuscisse a vedere il complesso del salvatore bianco come un sintomo del soggiogamento da parte dei bianchi, allora si può anche imparare a distaccarsene. Più ampia sarà la piattaforma da cui parlate, maggiore sarà la vostra influenza. Perciò potreste usarla per mostrare il lavoro che la gente del posto sta facendo, in un modo dignitoso, in modo che siano loro stessi gli eroi della storia che viene raccontata. Alzate la mano se siete stanchi di queste trovate, da @sjdooley a @gerardbutler, noi siamo stanchi.”.
Lo ripetiamo, i critici del “complesso del salvatore bianco” non condannano l’atto della donazione, bensì la rappresentazione del rapporto fra chi dona e chi riceve. Sì agli aiuti, allo sviluppo, alla sostenibilità, no all’autocompiacimento, all’edonismo, all’assistenzialismo finalizzato allo sbarazzarsi della propria “spazzatura”.
In generale, nella cultura africana, ciò che i bianchi tendono a mostrare all’opinione pubblica attraverso fotografie e video, è invero ciò che si vorrebbe nascondere! La povertà per gli Africani, è una cosa va nascosta, non mostrata e sbandierata ai quattro venti, essa è fonte di vergogna! Riferisce Djarah Kan, cantante e scrittrice afroitaliana,
“In molte culture africane mostrare la propria povertà è una grande vergogna. Dire di aver bisogno di aiuti economici è una grande vergogna. Non avere i soldi per vestire e mandare i propri figli a scuola è una grande vergogna. Da piccola ricordo che mia madre, costantemente disoccupata, pur di non farci andare a scuola con vestiti dismessi preferiva riempirsi di debiti. Diceva che mai e poi mai avrebbe lasciato che unə biancə guardasse alle proprie figlie nello stesso modo in cui era stata abituata ad osservare e subire il rapporto malato che si creava tra lз africanз e lз volontarз che partivano nel Continente con l’obiettivo di “salvare l’Africa”.
E a pensarla così non era solo lei ma tante sue connazionali che pur di non mettere lз proprз figlз in una situazione di subalternità avrebbero fatto di tutto, e dico letteralmente di tutto, per sottrarlз all’immaginario də bambinə africanə. [Nota: i caratteri “з”, “ə”, ecc. non sono un errore di battitura, ed trattandosi di una citazione sono stati mantenuti].
Da tutto ciò, ma potremmo raccontare ulteriori esperienze per ore, si evince che affrontare queste problematiche richiede un cambio di paradigma verso un approccio più collaborativo e rispettoso, che valorizzi e coinvolga le comunità locali come partner a pieno titolo, facendo capire alla gente comune che gli abitanti del Terzo Mondo non sono straccioni selvaggi a cui gettare i nostri avanzi per il nostro compiacimento, ma sono esseri umani come noi, con le loro vite, con la loro dignità, con un coraggio ed una forza di affrontare le avversità che probabilmente in molti in Occidente si sognano.
Evitare questo complesso richiede richiede un cambio di mentalità e di sensibilità verso i problemi delle nazioni sotto o poco sviluppate. Per chi lavora sul campo, istituzioni, associazioni ed operatori, occorrono educazione e consapevolezza, ottenere le corrette informazioni, conoscere la storia del territorio e la comunità che lo abita. Fondamentale è l’ascolto attivo: ascoltare attentamente le genti, con le loro esperienze, conoscenze ed aspettative, prima di gettarsi a capofitto sul lavoro. Ovviamente ci vogliono collaborazione e coinvolgimento dei beneficiari, affinché siano loro stessi artefici del proprio destino: dai processi decisionali, all’orientamento ed al lavoro sul campo. Magari facendo uso delle buone pratiche di chi da tempo conosce e lavora in quei contesti con buoni risultati.
Dal punto di vista delle singole persone che in qualche modo intendono prestare il proprio aiuto da lontano, è necessaria una riflessione personale atta a comprendere quale sia realmente la molla che la spinge ad un impegno sì gratificante ma in primis gravoso: quali sono le motivazioni, ma anche i nostri pregiudizi, da dove essi nascono e come ci pongono nei confronti della realtà su cui andremo ad impattare con la nostra opera. Ci vogliono umiltà e soprattutto rispetto nei confronti delle persone che si vanno ad aiutare. Infine, quando possibile, coerentemente con le proprie intenzioni e disponibilità, è auspicabile cercare di far sì che l’aiuto che intendiamo dare non sia un qualcosa che si esaurisce nella donazione, ma che possa essere duraturo nel tempo, che fornisca opportunità alla popolazione, che sia sostenibile e permetta alla gente del luogo di proseguire il proprio cammino in maniera autonoma, soprattutto al di fuori delle situazioni di emergenza.
Per coloro i quali volessero approfondire l’argomento, suggeriamo i seguenti libri:
White Saviorism in International Development: Theories, Practices and Lived Experiences – di Themrise KHAN
White Saviorism and Popular Culture: Imagined Africa as a Space for American Salvation – di Kathryn Mathers
Ora una breve nota. Chi ha scritto questo articolo è pienamente conscio del fatto che a molti il testo non piacerà perché si sentiranno chiamati in causa. Non importa, qui si è solamente riportato ciò che altri hanno scritto o detto, aggiungendo un invito alla riflessione interiore. Poi ognuno è libero di fare e pensare come crede. In fondo siamo in un’epoca in cui le persone difficilmente escono dalla propria confort zone per confrontarsi con idee diverse dalle proprie.
Fonti:
https://www.ilpost.it/2024/11/20/band-aid-stereotipi-africa/
“White Savior Complex: Tra Volontariato e Megalomania” – Un articolo che esplora come il volontariato possa diventare una forma di narcisismo mascherato. https://www.ultimavoce.it/white-savior-complex-tra-volontariato-e-megalomania/
“White Savior, la narrativa del salvatore bianco” – Un articolo che discute perché immagini e storie che rappresentano il salvatore bianco possono essere dannose. https://www.robadadonne.it/211099/white-savior-narrativa-salvatore-bianco/
“White Saviorism: Il ‘Buon’ Colonialismo” – Un articolo che analizza le radici coloniali del complesso del salvatore bianco e le sue conseguenze. https://www.eduxo.it/2021/10/06/white-saviorism-il-buon-colonialismo/
“The White-Savior Industrial Complex” di Teju Cole https://www.theatlantic.com/international/archive/2012/03/the-white-savior-industrial-complex/254843/