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Non solo terrorismo: la violenza di militari e paramilitari contro i civili nel Sahel

Lo scorso 20 maggio 2020 ACLED, acronimo del progetto Armed Conflict Location & Event Data, ha pubblicato un interessante rapporto riguardante le violenze perpetrate nella macro regione del Sahel da parte delle forze governative o di sicurezza nazionale, formazioni paramilitari che ufficialmente dovrebbero proteggere la popolazione dai terroristi e contrastare il crimine, ma che si rivelano troppo spesso un’arma a doppio taglio. Si tratta di un argomento già trattato sulle pagine di questo sito, che tratteremo ora in modo più approfondito.

Da otto anni si combatte nel Sahel, una regione che si espande sui territori di Mali, Burkina Faso e Niger. Ciò che sappiamo, che i media mainstream raccontano, è che la zona è infestata da terroristi islamici, che combattono contro le autorità e massacrano regolarmente militari e civili. Ciò è vero, ma soltanto in parte. Si tratta in realtà di una visione alquanto semplicistica se non addirittura naif della reale situazione sul territorio. La retorica dei cowboy contro gli indiani fa facilmente presa su di una pubblica opinione poco attenta e superficiale, e serve egregiamente agli scopi di una certa politica transnazionale. La realtà del terrorismo locale è invece piuttosto variegata, spesso è difficile distinguere il confine fra terrorismo e comune banditismo, là dove questi ultimi spesso agiscono per conto dei primi, con il mero intento di racimolare qualche guadagno. Mentre politica e media si concentrano essenzialmente su Nusrat al-Islam, ufficialmente noto come Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin’ (JNIM) affiliato ad Al Qaeda ed operante anche in Maghreb, e Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), con base in Mali e di ispirazione salafita, nuovi attori si rendono protagonisti di episodi violenti nella regione. Episodi che sono stati ampiamente registrati e documentati da diverse organizzazioni internazionali e riportati da media soprattutto nord americani.
Jules Duhamel, fra le altre cose consulente per ACLED e MENASTREAM, esperto della suddetta regione, ha pubblicato un’interessante mappa riguardante attacchi di varia origine nel mese di novembre 2020 in Burkina Faso.

]Map of security incidents in Burkina Faso, November 2020 SOURCES: MENASTREAM and acled
CREDIT: JULES DUHAMEL https://julesduhamel.wordpress.com/

 

Come salta immediatamente all’occhio, molti sono stati gli attacchi perpetrati ai danni della popolazione civile (cerchi colorati), da parte di diversi soggetti: ovviamente ci sono i gruppi jihadisti (rosso), ma anche le forze di sicurezza (blu) e milizie (giallo) oltre che soggetti non identificati. Fra le zone interessate, il Sahel è quella più colpita, con 62 vittime.
Le forze di sicurezza in seno al G5-Sahel operano nella zona per contrastare l’espansione dei terroristi jihadisti, ma sempre più spesso, sia dalle organizzazioni umanitarie che da fonti del G5, giungono rapporti di violenze e vittime civili perpetrate da militari e paramilitari. Il G5 Sahel o G5S, è un quadro istituzionale per il coordinamento della cooperazione regionale nelle politiche di sviluppo e questioni di sicurezza nell’Africa occidentale, di cui fanno parte Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania, e Niger; esso si avvale dell’appoggio finanziario e militare di diverse nazioni, con la prevalenza di Francia ed altri stati europei che mantengono in zona dei contingenti militari (Italia compresa). Purtroppo le azioni dell’interforza, secondo il rapporto ACLED, sono fino ad ora mancate di coordinamento ed efficacia (NdA: a parziale scusante va anche annoverato il recente colpo di stato in Mali, ed in misura minore le elezioni politiche in Burkina Faso a dicembre 2020, che hanno distolto l’attenzione). Accade così che di fronte ad un’alleanza di comodo (e probabilmente temporanea) fra le diverse componenti jihadiste, gli eserciti regolari si ritrovino in ambasce e siano costrette a cedere vaste porzioni di territorio al controllo dei terroristi. Vittime fra i militari ed i civili, soprattutto in Mali, dove il malcontento continua a crescere di pari passo alla frustrazione delle truppe regolari; il senso di impotenza è palpabile. I bombardamenti francesi, oltre ad essere di dubbia efficacia a causa della volatilità dei terroristi, nonostante la pretesa chirurgica, causano anch’essi vittime innocenti fra la popolazione. Un prezzo che la comunità internazionale sembra disposta a pagare pur di salvaguardare i propri interessi e tenere buona un’opinione pubblica, comunque distante e disinteressata finché gli eventi non la toccano direttamente. Sempre secondo il rapporto, l’incontro del 13 gennaio 2020 nella cittadina di Pau con i rappresentanti del G5-Sahel, voluto dal presidente francese Macron con lo scopo di coordinare ed intensificare la lotta al terrorismo, ha sì avuto come conseguenza un aumento delle azioni di contrasto e di sbandierati successi, ma ha ottenuto come effetto collaterale anche un incremento di violenze (e vittime) contro la popolazione civile. Non si vuole insinuare che vi sia stata un’intenzione deliberata, ma i dati non mentono, come si può vedere nel grafico sottostante.

violence against civilians Sahel 2020-graph1 Source: ACLED

 

Del terrificante episodio accaduto a Djibo lo scorso aprile, abbiamo già riportato sulle pagine di questo sito Si trattò di un fatto che salì alla ribalta grazie alla denuncia di Human Rights Watch, e che vide la cruenta vendetta da parte dei militari nei confronti di civili di etnia Fula, ritenuti responsabili di attacchi e sommariamente giustiziati. I media internazionali ne parlarono, scoprendo l’agghiacciante realtà di omicidi e violenze contro i civili da parte delle forze governative. Uno dei tanti fatti di sangue di quel genere come in Burkina Faso, così anche nelle altre nazioni confinanti. Secondo alcune fonti, nel vicino Niger le forze di sicurezza avrebbero giustiziato o fatto sparire 102 membri delle comunità pastorali Tuareg e Fulani nel corso di una settimana, nei pressi di Inates e Ayorou. Questi rapporti sono stati accompagnati dalla scoperta di fosse comuni. Ulteriori attacchi a civili da parte dei militari del Niger sono stati segnalati nella provincia di Tillabery, a Ouallam e Torodi (Mondafrique, 2020), come anche nella regione di Menaka sul lato maliano del confine (UN MINUSMA, 2020).
Per quanto riguarda il Mali, la situazione non è certo migliore. La missione di peacekeeping MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) ha documentato 101 esecuzioni sommarie attribuite alle forze di sicurezza maliane e rivolte principalmente alla comunità dei Fulani nelle regioni centrali di Mopti e Ségou  (Le Monde, 2020). Il rapporto inoltre descrive dettagliatamente le prove di tortura e sparizione forzata. L’aspetto forse più inquietante, è che non pare esserci una causa scatenante di tale follia; non esiste una relazione biunivoca tra un attacco terroristico ed una vendetta contro la popolazione da parte dei militari o para militari. Talvolta ciò si verifica, altre volte invece no.

violence against civilians Sahel 2020-map1 Source: ACLED

Il rapporto ACLED enfatizza che gli attacchi ai civili da parte delle forze governative sono più frequenti in certe aree rispetto ad altre. Ciò può essere parzialmente spiegato dal fatto che sono sempre più o meno le stesse unità ad operare in una certa zona. A mero titolo esemplificativo, in Burkina Faso esistono due unità miste esercito / gendarmeria, note come GFAT (ora GFSN) e USIGN, che secondo un rapporto di Human Rights Watch del 2018 si sono ripetutamente rese responsabili di abusi di vario tipo contro la popolazione civile. L’ONU ha richiesto spiegazioni ai paesi del G5-Sahel, ma non è difficile intuire che da parte dei diversi governi vi sia una certa reticenza nell’indagare quei crimini; viceversa, in più di un’occasione sono comparse sui media locali dichiarazioni di esponenti politici a giustificare, o negare, in maniera più o meno velata, i soprusi. Ciò ci fornisce un utile spunto per comprendere il motivo delle violenze perpetrate ai danni dei civili. Innanzitutto va considerata la specificità del territorio e delle unità militari e para militari che vi operano. Poi la pressione che esse subiscono da parte del governo per ottenere dei risultati nella lotta la terrorismo.
Partiamo dal primo fattore. Portando ad esempio ciò che accade in Burkina Faso, sulle pagine del nostro sito abbiamo già parlato degli atavici conflitti che oppongono le diverse etnie, in particolar modo i Mossi ed i Fulani. I primi rappresentano la maggioranza della popolazione, occupano la gran parte delle posizioni di prestigio politico, militare e finanziario, vengono associati al potere centrale, lontano, corrotto, antagonista; i secondi relegati in zone povere, spesso dediti al nomadismo, di religione musulmana, e per questo considerati amici dei terroristi. Nel Sahel, come in altri territori periferici, vi è un buco di potere, di autorità. Il governo centrale è distante, se non assente, corrotto; attraverso le multinazionali che operano nel settore minerario esso si arricchisce sfruttando e distruggendo le risorse locali, acqua in primis, e poco o nulla ritorna alle popolazioni dell’area. Di conseguenza, i contrasti si acuiscono, ed il vuoto di autorità viene colmato da altri soggetti che si oppongono al governo centrale. Vi è un evidente squilibrio che non è riferito soltanto a queste due specifiche etnie, bensì si estende, in modo più o meno profondo, ad altre aree e popolazioni, come in Burkina Faso, così anche nelle altre nazioni della macro regione del Sahel. Ricordiamoci a tal proposito che i confini furono tracciati con una matita su di una mappa dalle potenze coloniali che occupavano quei territori, separando così gruppi etnici, famiglie, secolari interazioni. Appare dunque piuttosto evidente ciò che accade quando terroristi di matrice islamica, in un’area popolata da individui di religione islamica, compiono degli attentati. La reazione delle forze di sicurezza del Burkina Faso, prevalentemente di etnia Mossi, non mira ad individuare gli specifici responsabili; tutti coloro i quali abitano quella zona vengono ritenuti in un modo o nell’altro responsabili o corresponsabili. Si fa di tutta l’erba un fascio, si colpisce nel mucchio perché il concetto di giustizia, quando si è in guerra, assume connotazioni diverse rispetto al tempo di pace. Il confine con la vendetta diviene alquanto labile, ed allora, distinguere ciò che è giusto, accettabile, da ciò che non lo è, risulta più fumoso, nell’accezione anglosassone del termine. Dunque i conflitti fra civili residenti in una data area e militari rivelano radici che affondano in contesti storicamente estremamente diversificati e frastagliati. È un continuo alimentare la solita retorica del noi contro di loro, dei buoni contro i cattivi. O se vogliamo, del noto contro il diverso. Non tutti avrebbero il coraggio di parlare di razzismo riguardo a quel contesto, ma come altro potremo definirlo? Quando l’origine di tutto il male di una società viene attribuito ad un particolare gruppo di individui, di cosa stiamo parlando? Le esecuzioni sommarie, le sparizioni, le fosse comuni, non ci ricordano forse quanto accadde in Viet Nam, Afghanistan, Iraq, Jugoslavia? Ciò che accade nel Sahel è, nei fatti, il principio di una pulizia etnica a cui la comunità internazionale non si oppone con convinzione.
Ed arriviamo al secondo fattore. L’esercito delle nazioni coinvolte è continuamente sotto pressione. Da parte del proprio governo, della popolazione e della comunità internazionale. Tutti vogliono dei risultati nella lotta al terrorismo, non importa come, servono dei dati da presentare all’opinione pubblica. Poco importa che spesso soldati e gendarmi siano male armati ed equipaggiati, inferiori per numero, male addestrati e privi della necessaria conoscenza del territorio e del contesto operativo. A ciò si aggiunge la frustrazione dell’impossibilità di contrastare in maniera efficace i terroristi, i quali arrivano, colpiscono e spariscono. Così facendo le forze armate perdono il controllo de territori, ed ogni qualvolta viene attuata una contro offensiva, quelli che dovrebbero essere i reali bersagli riescono spesso a sfuggire come anguille, ed alle forze di sicurezza non rimane che rivalersi sugli abitanti, considerati complici nell’aver favorito gli jihadisti. La quasi certezza dell’impunità fa il resto.
A questo punto appare evidente che la popolazione saheliana non possa certo accogliere con favore gli interventi armati dell’autorità centrale; ma nemmeno che essa veda con favore l’avvento jihadista. Rappresaglie e soprusi non fanno altro che incentivare l’inserimento degli jihadisti nel tessuto sociale ed economico delle zone interessate. Inoltre, il carattere estemporaneo delle azioni militari e la palese incapacità di mantenere il controllo e l’autorità, altro non fanno che incrementare la diffidenza e la distanza. Solo l’instaurazione di un controllo efficace e duraturo nel tempo può, sempre secondo il rapporto ACLED, permettere al governo centrale di riaffermare la propria autorità e la legalità, a patto di evitare le attuali dinamiche di conflitto sociale ed intra etnico, precludendo così la penetrazione di chi finge di ergersi a protettore delle comunità locali.

Facile a dirsi, meno a farsi. Forse solo un controllo a livello superiore, magari internazionale, patrocinato da organismi indipendenti dotati di una certa autorità come osservatore delle forze armate, potrebbe cambiare in meglio la situazione. Tuttavia l’occupazione da parte di forze straniere non può funzionare nel medio e lungo termine, non sarebbe accettata dai cittadini.
Né le truppe nazionali regolari si sono dimostrate sufficientemente affidabili. L’esercito stesso è diviso in fazioni, pronte ad intraprendere una propria strada alla prima occasione.
È questa la medesima situazione di tante nazioni africane. Soltanto un processo comune di comprensione e riappacificazione che coinvolga tutti gli attori può consentire di stabilizzare i territori saheliani e tagliare le radici del terrorismo islamico. Non si tratta di un’utopia, già in altre occasioni le diverse etnie sono state messe d’accordo con reciproca soddisfazione. Piccole comunità che possono fungere da esempio per contesti più ampi. In fin dei conti si tratta sempre di esseri umani, la cui modesta aspirazione primaria è soltanto quella di poter essere lasciati in pace a vivere la propria vita. Purtroppo sono in tanti a remare contro…

 

In uno scontro fra due elefanti, la vittima predestinata è l’erba.

 

ACLED

Il progetto Armed Conflict Location & Event Data (ACLED) è un progetto di raccolta, analisi e mappatura delle crisi disaggregate. ACLED raccoglie le date, gli attori, i luoghi, i decessi e i tipi di tutti gli eventi di violenza politica e di protesta segnalati in Africa, Medio Oriente, America Latina e Caraibi, Asia orientale, Asia meridionale, Asia sud-orientale, Asia centrale e Caucaso, Sud-est & Europa orientale e Balcani e Stati Uniti d’America. Il team ACLED conduce analisi per descrivere, esplorare e testare scenari di conflitto e rende sia i dati che le analisi aperti per l’uso gratuito da parte del pubblico.
ACLED è un’organizzazione senza scopo di lucro registrata con lo stato 501 (c) (3) negli Stati Uniti.
Finanziamento
ACLED è un’organizzazione senza scopo di lucro registrata con lo stato 501 (c) (3) negli Stati Uniti. ACLED riceve sostegno finanziario dal Bureau of Conflict and Stabilization Operations presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, il Ministero degli Affari Esteri olandese, l’Ufficio federale degli affari esteri tedesco, la Fondazione Tableau, l’Organizzazione internazionale per la migrazione e l’Università del Texas ad Austin .
La copertura da parte di ACLED degli Stati Uniti tramite il US Crisis Monitor progetto è resa possibile grazie al supporto della Bridging Divides Initiative presso la Princeton University.
ACLED collabora anche con Mapbox per il supporto sui dati di posizione e sugli strumenti di mappatura più recenti.
Il progetto ha già ricevuto finanziamenti dal Consiglio europeo della ricerca nell’ambito del Settimo programma quadro dell’Unione europea (7 ° PQ / 2007-2013) / convenzione di sovvenzione ERC n ° 283755 dal 2013 al 2017.